L’inserimento di un
bambino adottivo straniero
nella scuola e nella comunità sociale
a cura di Patrizia, Ottobre 2002
 
Sono un’insegnante di scuola elementare da circa vent’anni e mamma adottiva.
Ho due figli: Tommaso di 21 anni, di origine italiana eIrene, 14 anni, di origine brasiliana. Preparare questo intervento è stato per un’occasione forte per confrontare i miei vissuti di figlia adottiva, insegnante e genitore con esperienze, tesi, saggi altrui. Alcune riflessioni ripropongono le tesi lette, altre nascono da una riflessione personale: sincere ma parziali sono condizionate da un coinvolgimento emotivo ineliminabile.
 
L’ingresso a scuola per qualunque bambino è un momento delicato.
Ma cosa vuol dire, ingresso, entrare a scuola? Il termine non ha di per sé un significato positivo, siamo noi a darle queste valore; non è però automatico che l’inserimento debba necessariamente essere un’esperienza  “ buona ”: E’ il contesto, cioè in questo caso la scuola che, come grande mediatore culturale, può essere strumento positivo d’integrazione o  in caso contrario di  emarginazione.  
E’ all’interno di questa cornice  che vogliono collocarsi alcune mie riflessioni.
Se la scuola è un’agenzia al servizio della persona, allora, i genitori adottivi, il mondo dell’adozione dovrebbe, innanzitutto, chiedere alla scuola di avere sempre come fine ultimo non solo l’istruzione, ma la formazione globale della persona, facendosi carico degli specifici problemi affettivi, emotivi, di benessere dei suoi utenti.
Quando un bambino entra a scuola porta con sé la sua storia, che è unica, irripetibile, esclusivamente e per sempre sua.
Un bambino adottato porta con sé, già due grandi eventi: una separazione ed un incontro: la perdita e la separazione da un ambiente nel quale aveva vissuto precedentemente, e insieme l’incontro con coloro che lo accolgono.
Un bambino adottato porta anche con sé, un vissuto che in qualche modo è chiamato ad elaborare: è la sua doppia genitorialità;e su di essa deve confrontarsi con i suoi pari e in alcuni casi anche con i sui tratti somatici.
Se da poco in Italia, affronterà un cammino  non facile, intenso, forte, perché deve riorientarsi, all’interno di una cultura, di una lingua diversa, di un universo affettivo nuovo.
Due piani allora si accavallano: s’intersecano il piano affettivo, emotivo ( la costruzione di una relazione forte, complessa) con quello conoscitivo (imparare una nuova lingua, immergersi in una nuova cultura).
 
Essere adottato, essere straniero, essere bambino. Questa è la fotografia dell’arrivo.
Essere adottato è sempre un momento di crisi per un bambino, per una bambina perché comporta la rottura definitiva di un legame che si stava costituendo e comporta cambiamenti non lievi  rispetto a punti di riferimento, abitudini, regole familiari…. cambiamenti ancora più evidenti quando il bambino viene inserito in contesti socioculturali diversi da quelli in cui è vissuto, tra persone che non parlano la sua lingua e spesso presentano tratti somatici  diversi dai suoi.
A proposito di tratti somatici diversi, di origini lontane, di origini diverse…
“Chi adotta oggi è necessario che si attivi , se è un’adozione internazionale, perché il proprio figlio non solo possa integrare ciò che già ha sviluppato nella sua storia precedente con ciò che coglierà o svilupperà nella sua nuova esperienza, ma è necessario che si attivi anche perché il proprio figlio possa  vivere positivamente la sua origine”.
Per i bambini adottati stranieri una positiva identificazione con la loro origine etnica è essenziale. Dobbiamo aiutarli ad  essere orgogliosi delle loro origini, indiane, rumene, ucraine, latino americane.
E per fare questo, condizione primaria è il riconoscimento della loro diversità, non la negazione o la rimozione che implica la cancellazione delle differenze quanto più possibile.
La possibilità per un bambino di colore di strutturare un’identità vera, e non una maschera, richiede necessariamente che gli adulti che vivono intorno a lui accettino come paritario non solo il bambino ma qualsiasi adulto di etnia diversa dalla loro.
Sarebbe difficile ed causa di ansia per un bambino avere la prospettiva che un giorno sarà simile a chi non viene accettato nel contesto in cui vive.
All’arrivo in Italia, il bimbo adottivo  non ha a disposizione un codice comune  che possa veicolare il nuovo, non esiste una lingua che spiega le regole, i tempi, gli spazi, le abitudini, ….
E’ deve ridefinire delle coordinate spazio temporali, odori, sapori, tempi, ritmi quotidiani, a volte neanche esplicitati, ma da acquisire comunque rapidamente.
(Ad esempio le cure fornite da una madre adottiva rappresentano per il bambino un cambiamento importante: le pratiche di maternage : l’insieme delle attenzioni fornite dalla madre durante l’alimentazione, il gioco, il contatto fisico, il modo di farlo dormire,…. mutano radicalmente da un continente all’altro).
Se è vero che normalmente l’apprendimento della lingua è più veloce rispetto agli altri bambini stranieri (bombardamento di stimoli qualitativi e quantitativi, full immersion con i genitori adottivi),  qui è ancora più urgente per stabilire quel rapporto affettivo nuovo così importante per lui.
Ma apprendere una nuova lingua è un tale investimento di energie per sentirsi accolto più interamente che va a toccare anche la costruzione della propria identità.
Apprendere la nuova lingua  non deve significare far perdere di valore alla propria. Probabilmente la dimenticherà, la perderà,  dal momento che non gli sarà più necessaria per comunicare, ma non sarà per nostra richiesta.
Costruire la propria identità  significa crescere portando in sé tutto di noi, al fine di armonizzarlo  in un equilibrio interiore che ci consente di affrontare e interagire serenamente  con le nuove esperienze che via via saremo chiamati a vivere.
Il cammino della conoscenza di sé è un cammino lungo, lungo fino alla adultità. Porterà prima o poi a fare i conti anche con le parti più nascoste chiedendosi il perché sono state poste in soffitta.
Aiutare a rimuovere, facilitare l’oblio della propria lingua, della propria cultura per dare totalmente  spazio al nuovo, può anche essere vissuto come qualcosa che “non vale la pena di tenere” nella propria valigia.
Credo che il rischio maggiore venga corso proprio dai bimbi con i tratti somatici più simili ai nostri. Qui le “differenze” esterne non esistono e per molti educatori è più facile dimenticare quelle “interne”. Per proteggerlo o proteggerla, pensando che la normalizzazione passi attraverso un disfarsi di un  passato a noi sconosciuto e presunto negativo, si facilita la rimozione, l’oblio della cultura d’origine.
Spesso è un boomerang.
Tornerà forte nel periodo dell’adolescenza insieme a tutti gli altri perché e quando si fa strada  il bisogno di recupero della propria storia.
Avviene anche per i bambini stranieri che sono in Italia con le proprie famiglie d’origine.
Le problematiche che li accompagnano sono diverse: qui c’è un nucleo parentale di protezione.
Nel caso del bambino adottivo non ci sono radici a cui aggrapparsi, è come un lancio  in alto, molto in alto, senza un rete.  Non c’è un momento della giornata in cui riconoscersi tra uguali, parlare la stessa lingua, non c’è un sentirsi parte.
 
E’ urgente allora riorientarsi sul piano affettivo e sul piano culturale, per sopravvivere.
Il periodo di disorientamento può essere più o meno lungo e lacerante a seconda delle capacità di reazione dell’individuo, della lontananza culturale rispetto alle proprie origini, del contesto di accoglienza.
La lingua materna rappresenta la pelle di una persona e l’investimento personale verso questa lingua inizia già nei primi giorni di vita discriminando i diversi stimoli sonori che giungono alle orecchie (Tullio De Mauro). Non è semplice dire a una persona “ cambia lingua ”  (non “imparane un’altra oltre alla tua”). E’ come dirgli cambia pelle.
 
La lingua madre impasta profondamente la nostra personalità, non è un vestito.
Il fatto che la scuola ignori l’esistenza della lingua d’origine, o la viva come un impiccio, una difficoltà insormontabile e svalorizzi nei fatti la lingua d’origine fa si che  i bambini stranieri la vivano come un elemento di cui vergognarsi, un tratto di sé che allora va tenuto nascosto o dimenticato in fretta perché fonte di disagio e ostacolo nell’apprendimento.
Eppure la lingua sta nella loro valigia segreta, insieme ad oggetti, ricordi, saperi.
D’altra parte i bambini adottivi sono per certi versi bambini sconosciuti, spesso le loro esperienze precedenti, le loro origini possono essere solo immaginate, a volte accompagnate da un senso di paura, da parte di noi adulti.
A scuola, all’inizio l’italiano usato dall’insegnante viene percepito come un insieme di suoni confusi (accanto a comandi, indicazioni mimiche).
I più piccoli continuano a parlare la lingua familiare per un po’ sia con adulti che con coetanei; a volte prima di addormentarsi si raccontano o cantano cantilene, ninna nanne nelle lingua familiare.
I più grandi ricorrono soprattutto al linguaggio del corpo.
 
Il gioco è lo strumento formidabile per la comunicazione.
“La difficoltà ad utilizzare strumenti  complessi come il linguaggio e la difficoltà a percepire una profonda differenza tra un ambiente originario e un ambiente che  lo accoglie ma non capisce ciò che lui chiede od esprime, determina a volte una tensione che ripropone tutti i vissuti legati alla separazione o all’abbandono”.
Questa conflittualità nel comunicare  sentimenti e  pensieri porta, a volte, a uno stato di regressione, che può manifestarsi con comportamenti aggressivi.
Anche a scuola occorre imparare rapidamente regole implicite che regolano la vita quotidiana, anche per non rimanere esclusi dal gruppo dei pari.
L’apprendimento dell’italiano attraversa due fasi:
- Per comunicare nella vita di tutti i i giorni ( il qui e ora): termini, frasi legate alla concretezza.
- Per studiare, per comprendere ed esprimere idee astratte, concetti, ragionamenti, pensieri, emozioni.
La normativa scolastica italiana favorisce l’inserimento con richieste di adeguamento dei programmi, prevedendo personale specializzato per l’insegnamento della L2.
C’è un orientamento valoriale positivo a livello di normativa.
Esistono modalità diverse per l’inserimento di bambini stranieri: In alcune scuole , prima di entrare nella classe, frequentano per qualche settimana un laboratorio linguistico che ospita alunni di diverse etnie e solo successivamente vengono inseriti nella classe di appartenenza, continuando a frequentare il laboratorio per qualche ora al giorno.
Ho qualche perplessità in proposito, per i bambini adottivi. Ritengo prioritario accanto all’apprendimento della lingua anche la costruzione di un senso di appartenenza al proprio gruppo classe, la costruzione di un riferimento affettivo che gli dia sicurezza e lo faccia sentire parte, del suo gruppo,  fin dall’inizio, condividendo con i compagni il clima, le attività, i momenti di gioco, alcuni apprendimenti. Saranno necessari degli interventi mirati, delle proposte specifiche, ma dopo  e andrebbero collocate in continuità con ciò che viene affrontato in classe affinché il filo ideale che lo tiene legato ad essa non si spezzi e l’offerta  di un percorso  di apprendimento della  nuova lingua non sia vissuto come slegato dal contesto della classe di appartenenza.
Nel caso di inserimento di un bambino straniero grandicello, a volte si tende ad inserirlo in classi inferiori  di qualche anno rispetto alla sua età cronologica, giustificando ciò come un contesto più facilitante all’apprendimento della lingua. Dissento, di norma, da questa scelta se oltrepassa l’anno di differenza. Un bambino innanzitutto è una persona, ed è collocato in una certa fase evolutiva. Se noi dovessimo imparare una nuova lingua non vorremmo essere  inseriti in una classe di bambini perché il nostro essere adulti nulla ha a che fare con la nostra ignoranza linguistica. Così penso che una bambina di dieci anni non possa essere inserita in una classe prima o seconda: il rapporto con i suoi compagni non sarebbe paritario e il suo sviluppo come persona, il suo percorso di maturazione, di crescita globale ne risentirebbe. Non solo ma sarebbe destinato/a, probabilmente per tutto il suo iter scolastico a rapportarsi  con coetanei di età  molto inferiore e a   condividere interessi, divertimenti, scelte,…
La scuola, l’insegnante è un’occasione d’incontro preziosa per il bambino, lo accompagna ad emanciparsi dalla famiglia, ad integrarsi nel sociale, offrendo la possibilità di vedere la realtà con occhi diversi da quelli dei propri genitori.
Occorre tener presente che a volte i genitori premono sulla scuola per una “normalizzazione” del proprio figlio.
Possono vedere nel successo scolastico, nel rendimento,  una conferma rispetto al fatto che è un bambino come gli altri (effetto normalizzante) e una conferma di validità genitoriale: tendono a verificare la loro validità come genitori con la riuscita scolastica dei figli.
Dunque, l’impatto con la scuola è spesso dirompente nell’esperienza adottiva, anche per i genitori, per le aspettative che alcuni genitori hanno riguardo ad essa: esiste un’angoscia pedagogica del genitore adottivo. Una certa angoscia si manifesta in ogni genitore quando il proprio figlio entra a far parte della comunità scolastica; nella scuola l’elemento di giudizio è evidente; c’è una valutazione esplicita e insieme al bambino si sente valutata anche la famiglia. Il genitore si sente valutato attraverso  il rendimento del figlio. E qui c’è la paura di educare male. E c’è il sentirsi legittimati, o meno, al ruolo di genitore, quando manca l’atto della procreazione, di fronte al sociale.
Il questo caso lo star bene reale del bambino, le sue insicurezze  nascoste, le possibili nostalgie, la fatica, le paure… passano in secondo piano.
E’ lavoro dell’insegnante aver cura che il bambino, si inserisca, si integri nel nuovo contesto, con calma, senza  cadere lei stessa  e far cadere bambino e genitori nell’ansia da prestazione.
Occorre che insegnanti e genitori si sostengano vicendevolmente rispetto all’ansia del rendimento e della normalizzazione: è funzionale al bambino questo atteggiamento, perché non si sentirà costretto a contraccambiare la sua accettazione e l’affetto delle persone a lui più care attraverso un adeguarsi a come noi adulti desideriamo che sia.
Un bambino adottivo ha una fame di affetto, accettazione, appartenenza che lo porta talvolta a dover colludere con l’adulto, accettando,  purtroppo, di essere come lui desidera che sia, o vivendosi in modo negativo per non riuscire ad essere adeguato.
Non credo si possa affermare che  i bambini adottivi, in quanto tali, abbiano difficoltà a scuola ma è stato dimostrato che proprio nella scuola i bambini adottati, possono presentare le maggiori difficoltà di riuscita, queste difficoltà si riscontrano con maggior frequenza e intensità nei bambini di colore, soprattutto se adottati in età non precoce. Quando sono ripetuti gli insuccessi scolastici, il livello di frustrazione dei genitori è molto forte e porta ad un diffuso senso di fallimento.
 
La scuola può dare aiuto alle famiglie con bambini adottivi stranieri, in particolare di colore impegnandosi in un rapporto positivo con la famiglia, rapporto costruito con competenza professionale e funzionale a definire insieme obiettivi comuni per il recupero del divario scolastico del bambino e per migliorare le sue possibilità e capacità di crescita personale.
La scuola, dentro a un rapporto di stima e aiuto reciproco, può aiutare la famiglia a sviluppare una capacità d’ascolto dei reali problemi del bambino. A scuola lui trascorre gran parte della giornata, lancia messaggi, sentimenti, desideri, vissuti, timori, ricordi che l’insegnante può raccogliere e farne oggetto di riflessione con i genitori.
Altrettanto importante è l’atteggiamento che l’insegnante  assume direttamente verso di lui, o più generalmente verso il problema della differenza etnica.
·    L’insegnante che tende a commiserare e proteggere il bambino richiedendogli di fatto un rendimento inferiore a quello dei suoi compagni di classe, si dimostra comprensivo, ma invia anche un messaggio di diversità e svalutazione che ha una valenza negativa
·    Anche minimizzare  commenti e atteggiamenti poco benevoli dei coetanei, non permette ne a lui ne ai suoi compagni di elaborare in positivo un dato di fatto che lo etichetta come un diverso.
Quando nascono situazioni di tensione tra lui e i suoi compagni rispetto alle sue origini occorre intervenire perché non nasca in lui il sospetto che proprio le persone che più lui ama e da cui cerca affetto lo marginalizzano. L’insegnante che non interviene nelle situazioni che creano ansia nel bambino, accentua il suo senso di inferiorità e indirettamente avvalla il comportamento dei compagni.
·    Differenziare il proprio comportamento e le proprie richieste  verso i bambini di cultura diversa a seconda che siano immigrati o adottivi vuol dire farli sentire ancora più bisognosi, in quanto senza famiglia.
A volte non è semplice per un adulto intervenire tempestivamente, decidere subito come comportarsi con un bambino. Si commetteranno comunque degli errori, ma se a monte c’è  chiaro il convincimento che è soggetto di diritti e di rispetto… gli errori saranno ridotti.  
E’ in queste scelte  che  la scuola si gioca la reale integrazione del bambino adottato.
La scuola  è luogo di apprendimento e di trasformazione culturale per tutti.
 
Il bambino straniero adottivo è una risorsa per tutti:
·    consente di introdurre nella classe il tema della famiglia o meglio delle  varie forme di famiglia di cui un bambino può essere parte:
Prendiamo atto che oggi la famiglia sta subendo delle trasformazioni: la famiglia reale è molto differenziata. Diverse sono le tipologie. Famiglia monoparentale, con figli nati da precedenti matrimoni, con matrimoni misti, famiglie che attendono da anni un ricongiungimento, famiglie adottive, famiglie con figli di etnie diverse….Ma cos’è allora una famiglia se si esce dallo stereotipo del Mulino Bianco?
·    E’ la condivisione di un progetto di vita fra persone che si vogliono bene, s’impegnano perché questo bene continui ad alimentare il loro rapporto.
·    E’ un’occasione per affrontare in modo nuovo l’approccio al complesso, al diverso (perché immigrato, perché portatore di handicap, perché figlio di genitori separati….)
·    L’educazione interculturale prevede il riconoscimento e l’esistenza di più culture all’interno di una medesima società, la reciproca interazione, lo scambio. La classe è un piccola società , è il territorio in cui,  in una prospettiva educativa, si vuole promuovere la creazione di una coscienza aperta e solidale dove vengano promossi e valorizzati i processi d’incontro e comunicazione tra culture diverse. E’ un processo e al tempo stesso un obiettivo.
  
A volte, il rapporto tra genitori e insegnanti può entrare in crisi per bisogni specifici della famiglia, mal interpretati dalla scuola.
Per esempio il bisogno di considerare l’adozione un fatto privato, (la ferita dell’abbandono o della sterilità della coppia è ancora aperta) e pertanto sia i genitori, sia di riflesso i figli, non amano che se ne parli se non con intimi.
Molti bambini sono imbarazzati quando di parla della loro storia, o sentir raccontare la propria storia  ad altri che loro considerano estranei o che comunque preferirebbero non sapessero. 
“Quanto compete all’insegnante sapere? Quanto un insegnante è legittimato ad entrare nella vita privata di un famiglia? Quanto è aiutato nel sapere che quel bambino è adottivo? 
Cercare di carpire il segreto, scoprire a tutti  i costi cosa sta dietro, la ricerca delle cause, sono modalità a volte utilizzate quasi per ufficializzare la difficoltà, il limite ad entrare nel territorio dell’altro.
Perché è  difficile porsi in situazione d’ascolto, è più tranquillizzante porsi nell’ottica di causa – effetto.
E’ necessario sapere che è adottato e se ha avuto esperienze  di  particolari sofferenze… tuttavia la sua particolarità sta nell’aver dovuto affrontare esperienze diverse che lo portano a processi d’identità più complessi, ad interiorizzare esperienze di sé diverse, non lineari.
Se la sua situazione psicologica è a rischio, però, non lo è per via dell’abbandono e delle sue origini come se il trauma iniziale dovesse condizionarlo negativamente per tutta la vita (visione deterministica) ma perché nelle esperienze successive di sé non viene accolto, accettato e ascoltato nei suoi bisogni.
Il bambino adottivo rischia quando deve confrontarsi con le attese, le aspettative, e per non rischiare di essere rifiutato, mette in moto dei meccanismi che lo allontanano da sé, combatterà da solo, metterà la maschera”.
Sentirsi accolto, considerato da qualcuno importante per lui, senza negare le sue differenze, le sue difficoltà, le parti più fragili di sé gli darà invece serenità e maggior sicurezza. “
 
Non esiste, che io sappia una patologia specifica legata all’adozione.
Quello che occorre tener presente è , come dice Winnicott  “ anche se un’adozione ha successo, c’è qualcosa di diverso dal solito, c’è una  fatica in più…… sia per il bambino che per i genitori”, “Durante l’adolescenza i figli adottivi non sono come tutti gli altri, per quanto si faccia finta che lo siano…L’adolescenza ci smaschera proprio su questo punto .
“Se un’adozione va bene diventa una normale storia umana”.
I ragazzi adottivi vivono l’adolescenza con maggior tensione di altri proprio per l’ignoranza circa la loro personale origine: Il problema è il mistero.
Un’ansietà riconducibile all’essere adottivo rinforza  le domande fondamentali che ogni ragazzo si pone : da dove vengo, chi sono, a chi assomiglio, … tanto per incominciare, una parte della sua vita , l’inizio, gli è sconosciuta. Non conosce le circostanze della sua nascita, non sa niente dei suoi primi mesi , a volte anni, della sua vita. Non vive con la sua famiglia biologica, sede delle sue radici.
 
La pulsione del ritorno alle origini va a svantaggio della spinta verso il futuro.
E la conseguenza della mancanza di queste informazioni può provocare un senso di insicurezza, vergogna, colpa, inferiorità, disagio.
Alcuni sostengono che quanto più precoce è stato il distacco, tanto più forte sarà l’impulso alla ricerca. Avere ricordi, anche se tristi è avere un riconoscimento della propria esistenza. Non averne è il vuoto.
Per dirla in modo semplice penso che l’apprendimento possa anche essere disturbato dall’emotività, dalla conflittualità, dalle tempeste emotive che distraggono l’intelligenza e la memoria . 
Se un’adozione va bene… comunque un ragazzo adottato deve confrontarsi con fantasie, problematiche interne con le quali i figli  biologici di solito non devono confrontarsi.
Ad esempio, nell’adolescenza, deve confrontarsi col buco nero delle sue origini e deve elaborare una doppia separazione: quella dai genitori biologici e quella dai genitori adottivi. Per raggiungere ad una rappresentazione di sé integrata, completa deve confrontarsi quindi con una doppia coppia genitoriale: i genitori biologici e i genitori “veri”.
Deve fare i conti con il distacco dai genitori biologici, deve confrontarsi con il timore di non essere veramente desiderato e amato, comunque si comporti, dai genitori adottivi..
Quindi ragazzo e genitori adottati presentano caratteristiche e problematiche proprio connesse con l’adozione.
Ripeto, non è un patologia ma all’opposto non è possibile affermare che essere adottato o figlio biologico non comporta alcuna differenza
A volte non è facile “incontrare” questi ragazzi: gli si parla, li si vede, ma si lasciano incontrare con fatica.
“Talvolta sono figli, sono  allievi che chiedono senza avere mani per ricevere.”
La collaborazione scuola famiglia: quali ambiti può avere?
Spazi d’incontro informali e non…. Per stabilire:
·    Distinzione tra ciò che compete al genitore e ciò che compete alla scuola
·    Condivisione di quali sono i bisogni e i diritti dei bambini
·    Condivisione che lo sviluppo adeguato non è solo rendimento.
·    Non una delega in bianco, mai, vigilanza invece, affinchè la sua diversità sia riconosciuta, sia rispettata, da tutti: coetanei, genitori, insegnanti.
·    Chiedere alla scuola che il proprio figlio non abbia una corsia preferenziale, ma in quanto soggetto di diritti gli siano garantiti tutti quegli interventi mirati che lo portino al raggiungimento delle competenze che è in grado di conquistare.  
 
Io non credo che un bambino “rinasca “ quando entra nella sua famiglia.
L’incontro non è un punto di partenza, è una tappa di un percorso avviato prima, percorso, cammino faticoso, lungo come una vita. Riconoscere che nostro figlio  ha avuto una storia precedente, vuol dire rispettare e accettare tutto di lui, i suoi ricordi, le sue paure, le sue solitudini, vuol dire sapere che è portatore  di esperienze, di saperi che andranno recuperati integrati, valorizzati. Dimenticare  o far finta che tutto ciò non ci sia, non ci sia stato significa non voler fare i conti con le nostre paure, con i fantasmi dei genitori biologici dei nostri figli.
Si dice che la compagna silenziosa di molti genitori adottivi sia la paura, lo è per me.
Paura di aver fallito come genitore, di non farcela, che ci possa esser ripreso, che non ci riconosca come suoi genitori “veri”, la paura di non riuscire ad accompagnarlo nella ricerca della sua storia.
Ma accanto alla paura c’è la gioia di un’avventura umana quotidiana,  unica, c’è la gioia e l’orgoglio  di una vita condivisa con una pienezza che  i vincoli di sangue non riescono a garantire.
Credo che un genitore, in particolare adottivo, sia chiamato a dare, anche quando il destinatario è muto sul piano delle manifestazioni esterne di affetto o addirittura esprima aggressività, sfida.
Eppure…
 
Occorre affrontare il passato per pensare al futuro.
Essere genitori di ragazzi adottivi alle prese con una fetta di mistero vuol dire controllare l’ansia, ammettere l’intimità e il segreto, garantendogli una disponibilità di affetti aperta e silenziosa, insieme ad una presenza instancabile, ma non opprimente.
Al bambino adottato deve essere assicurata una certezza di base che va oltre l’istituto giuridico e che ha la forza non più discutibile degli affetti qualunque possa essere il loro comportamento.
Prepararsi ad aiutarlo a darsi delle risposte. A dare delle risposte.
Nel rapporto coi pari, finché sono piccoli (scuola materna) entrano rapidamente a far parte dello spazio del NOI. Verso la fine della scuola elementare  il confine si allontana  se il colore della pelle è diverso….e allora…
Nella scuola media escono frasi: Sei un bastardo, mi vergogno a uscire con te, anche se mi sei simpatico, chissà cosa faceva tua madre…
Dirgli tante volte e una volta in più che gli si vuol bene. Che l’abbiamo tanto desiderato, lui o lei, proprio lui, proprio lei…
Raccontargli tante volte e una volta in più quel che sappiamo del suo passato, accompagnandolo nelle sue esplorazioni, se ce lo permette.
Deve sentire che ci siamo sempre , per lui, dalla sua parte.
Non solo deve sentirsi amato, ma anche rispettato, stimato da noi per le sue conquiste. Un ragazzo adottivo è spesso vulnerabile, permaloso, sospettoso, insicuro, fatica a crescere…. La nostra scommessa è quello di accompagnarlo, come educatori, a volersi bene, ad assumersi responsabilità, a fare scelte consapevoli, ad aprirsi al mondo con fiducia, con curiosità.
Accettiamolo per quello che è e non per quello  che vorremmo fosse. Anche se sembra scontato, tante volte non è facile. Esiste la tentazione che quello che nell’infanzia viene tollerato, nell’adolescenza venga severamente stigmatizzato e… guai se i parametri di resa non sono in linea con gli standard fantasticati dalla famiglia. In questi casi, nei genitori, c’è la tentazione forte di mollare, o cadere nel disinteresse, nell’invito ad arrangiarsi, a fare quello che vuole, in alcuni casi ci si “ arrende”. E allora….
Nel ragazzo, il senso di abbandono si amplifica e la barriera dell’incomprensione si alza.
Noi avremo un vissuto di fallimento dell’adozione e lui o lei cercheranno accoglienza nella fantasia della “famiglia buona”, quella mancata, quella di sangue.
Se non riesce a trovare supporto nel gruppo dei pari, si apre la strada di una grande sofferenza, di un’enorme solitudine : l’adolescente adottivo rimane solo…un’altra volta. 
“Il peggior male per la fantasia di un adolescente adottivo, è l’ipotesi rischio che l’adozione possa essere messa in discussione dai genitori che l’hanno voluta”.
Il contenuto di alcuni atteggiamenti di sfida, di aggressività, di trasgressione credo voglia avere la valenza di un rassicurazione in tal senso: E’ un metterci alla prova, una disperata richiesta  di conferma di essere amati, amati nonostante tutto.
 
Anche noi cresciamo con i nostri figli.
Se è vero che genitori si diventa giorno per giorno, e quindi si cresce, e che educare significa accettare di essere educati in uno scambio reciproco, allora anche noi cresciamo con i nostri figli.
 
E questo è uno dei tanti regali che loro ci fanno.

 

Patrizia